«In Iraq ero perseguitato perché gay: sogno di fare il cuoco ma qui in Italia non riesco a trovare lavoro»

La vicenda di Danyar Star, fuggito da Mosul due anni fa, profugo in Italia dove ha ottenuto asilo politico. «Sono un rifugiato. Quello che desidero è solo un lavoro».
di Francesca Ronchin
Anche oggi la stessa storia. In giro per Roma a consegnare il cv a bar e ristoranti. La risposta però è sempre la stessa, da mesi: «Grazie non abbiamo bisogno» e nei giorni particolarmente fortunati «ti faremo sapere». Il lavoro non c’è e quando c’è «chi sceglie di affidarsi a un ragazzo iracheno, profugo e persino gay?» sospira Star con quel po’ di autoironia rimasta. 29 anni, fuggito da Mosul due anni fa perché perseguitato a causa del suo orientamento sessuale, a ottobre Danyar Star deve lasciare il centro di seconda accoglienza San Francesco gestito dalla cooperativa Medihospes dove risiede ormai da più di un anno. Una struttura del circuito Siproimi, ex Sprar, che per l’approccio di accoglienza diffusa a contatto con gli enti locali è il fiore all’occhiello del sistema accoglienza italiano.
Danyar ha ottenuto l’asilo politico subito rientrando in quel risicato 20-30% di migranti che per il Ministero dell’Interno hanno diritto alla protezione internazionale. Gli altri, il 70-80%, hanno storie che non convincono e per le commissioni territoriali sono migranti economici. Poi però si può fare ricorso e 4 su 10 riescono ad ottenere una qualche forma di protezione internazionale.
Su Danyar non ci sono mai stati dubbi, va protetto. Ora però è fuori tempo massimo. La scadenza era arrivata già a marzo ma con la pandemia in corso era slittata di qualche mese. Il problema però è che senza un lavoro, senza un reddito Danyar non sa dove andare e la corsa verso la libertà iniziata con la fuga da Mosul sembra quanto mai distante dal lieto fine.
«In Iraq rischiavo la vita ma non ho pace nemmeno qui»
La Sharia è lontana, lontani i brutali omicidi commessi dallo Stato Islamico nei confronti dei gay, lontane anche le aggressioni subite dal fratello che quando scopre che Danyar non ama una lei ma un lui gli si scaraventa contro, lo ferisce alla testa con un coltello mandandolo dritto al pronto soccorso. Al centro di accoglienza però, la maggioranza dei ragazzi proviene da paesi dell’Africa subsahariana dove l’omosessualità è un reato e con Danyar hanno atteggiamenti omofobi. «Per loro sono “diverso” – ci racconta – mi insultano, mi minacciano, una volta sono entrati nella mia stanza mettendo tutto sottosopra. Devo sempre guardarmi le spalle e non posso stare tranquillo nemmeno quando dormo».
Stessa musica persino all’Arcigay di Roma dove avevamo conosciuto Danyar un anno fa. Gli incontri per migranti Lgbt dovevano essere uno strumento d’integrazione, un modo per fare «networking», trovare nuovi amici e magari un inserimento lavorativo. Invece come ci aveva raccontato lo stesso coordinatore, si scopre che gli incontri sono frequentati al 99% da migranti eterosessuali esclusi dall’asilo e alle prese con il ricorso. Su suggerimento di avvocati senza scrupoli si recano all’Arcigay per ottenere la tessera, un escamotage con cui poi convincere i giudici della propria omosessualità e ottenere la protezione. Gli incontri si rivelano inutili e anziché sentirsi a casa, Danyar è un «diverso» anche lì. Lo scorso febbraio aveva iniziato a fare le pulizie presso la casa di un’anziana signora. Poi però è arrivato il lockdown che si è mangiato tutto, comprese quelle poche ore di lavoro perché ora, per paura del virus, la signora in casa non fa entrare nessuno.
Gli altri se ne sono andati quasi tutti
E sì che sulla carta Danyar avrebbe tutte le carte in regola, letteralmente, per aspirare all’ «inclusione lavorativa e abitativa» promessa sulla carta dal circuito dell’accoglienza e magari realizzare il suo sogno di sempre: fare il cuoco. Al centro ha frequentato un corso professionale per pizzaiolo – panificatore promosso dalla Fondazione Adecco e ha ottenuto anche l’attestato di partecipazione alle lezioni di lingua italiana, cosa tutt’altro che scontata visto che dai dati del Ministero dell’Interno nel 2018 solo il 13,8% dei migranti ospitati negli Sprar ha concluso un corso di italiano. Ha fatto tutte le cose per bene Danyar, da manuale, spinto dal desiderio di integrarsi in Italia. Eppure mentre gli altri ragazzi arrivati nel suo stesso periodo, se ne sono ormai andati quasi tutti, lui è ancora lì, senza alternative. «Se non hai qualcuno che ti dà una mano non vai da nessuna parte» sospira. «Molti sono andati all’estero – racconta – soprattutto Francia e Germania, dove hanno amici e parenti. Se avessi qualche gancio ci andrei anche io con i 250 euro che il governo italiano mi darà quando esco, non ci puoi fare molto con questi soldi che sembrano fatti apposta per comprare un biglietto e andare via». Gli unici ragazzi che sono ancora al centro con lui sono quelli che hanno fatto ricorso prima dell’entrata in vigore del Decreto Salvini che ha stretto le maglie dell’ospitalità sui richiedenti asilo, fino a che non arriva una risposta il centro non li può mandare via. «Alcuni si guadagnano da vivere – ci racconta Danyar – lavorano come benzinai, altri danno una mano al mercato, tutto in nero penso».
«I più si affidano alle comunità di origine, io non posso: sono scappato per questo»
L’importanza di amici e parenti la conferma uno studio dell’Ispi secondo il quale il 60% dei migranti trova lavoro grazie a contatti con le comunità d’origine. Un «fai da te» lontano da canali ufficiali o percorsi d’inclusione confermato dai dati dell’ultimo rapporto sulla seconda accoglienza realizzato da Cittalia (Fondazione Anci). Se si guarda alla tipologia dei 41.113 migranti entrati nei centri ex Sprar nel 2018 o dei 39.686 nel 2019, la maggior parte proviene da Nigeria, Gambia, Mali, Pakistan, Senegal, tutti paesi con tassi molto bassi di accoglimento della domanda di asilo (3-4 su 10). Tra i tempi della domanda e quelli del ricorso per a protezione internazionale, tutti entrano ed escono dal sistema di accoglienza in un continuo turn over che in uscita trova «protezione» nelle comunità di origine, tra le più popolose e spesso concentrate in contesti di emarginazione abitativa e promiscuità lavorativa. Secondo dati della Fondazione Moressa sarebbero almeno 630.000 gli immigrati (con e senza permesso di soggiorno) che lavorano in nero per un valore di 15 miliardi di euro. Un sottobosco che Danyar non vuole prendere in considerazione magari cercando aiuto tra qualche connazionale. Gli iracheni in Italia sono pochi e poi la cultura del suo paese è profondamente omofoba. «Sono scappato da Mosul proprio per questo». Non solo. «Per affittare una stanza mi chiedono un contratto di lavoro regolare e io voglio fare le cose in regola, non voglio più vivere nella paura». Una situazione, quella di Danyar, che per una macchina dell’accoglienza nata proprio per offrire protezione e rifugio a persone perseguitate, dovrebbe essere all’ordine del giorno. Lo ricorda anche l’esperto di immigrazione Christopher Hein nel rapporto Idos 2019: «Il rifugiato per definizione è colui che scappa in assenza di un progetto migratorio, non perché attratto dalla ricerca di condizioni economiche migliori», tantomeno dalla presenza di contatti in Europa presso i quali tentare la fortuna. In realtà, come conferma il basso tasso di accoglimento delle domande di asilo, il sistema sembra ormai reggersi soprattutto sull’intraprendenza di chi, in assenza di vie legali, spesso si trova costretto a impostare il proprio percorso migratorio a partire da una bugia ed è disposto ad ogni tipo di espediente pur di non tornare indietro. Non solo, prassi ormai strutturale sembra anche quella di delegare il percorso d’ «integrazione» ai migranti stessi.
Il «dopo» accoglienza? Un buco nero
Come finiscano davvero queste storie infatti, nessuno sembra saperlo. Quando chiediamo informazioni precise sui percorsi d’inclusione a Unhcr, Ministero dell’Interno e Comune di Roma ci rispondono che non ci sono mappature disponibili. In pratica, la macchina dell’accoglienza ospita i migranti il tempo necessario a tentare di ottenere la protezione dopo di che, come si mantengono, dove vivano, nessuno esattamente lo sa né, forse, vuole saperlo. Gli unici dati che riusciamo a trovare sono quelli del circuito Siproimi, ex Sprar.
Nel 2019 il 32,5% dei migranti ha lasciato i centri prima della scadenza prevista e se ha rinunciato a vitto e alloggio sicuri, per non parlare di corsi professionali o di lingua, evidentemente doveva essere già in possesso di un progetto migratorio preciso. Vi sarebbe poi un 39,6% di migranti nella categoria «inserimento economico» ma se si va a leggere bene il rapporto, non si tratta di migranti che godono di autonomia lavorativa e abitativa ma che «sono stati messi nelle condizioni» di trovarla. Se l’abbiano trovata o meno, non è dato sapere. Quello che sappiamo però, lo dice l’ultimo rapporto del Ministero del Lavoro, è che la stessa comunità di 5.300.000 stranieri regolari che vivono in Italia non se la passa bene. Due su tre sono poveri, un quarto si trova in condizioni di povertà assoluta e 401.960 sono attualmente in cerca di un’occupazione.
Protezione e sussidi
Parlando con Danyar sembra che la sua colpa sia quella di ambire ad un lavoro onesto, ad un percorso d’integrazione in grado di portarlo all’autonomia e non verso una vita di espedienti.
A giorni Danyar sarà fuori dall’accoglienza e dalla Divisione Servizio Centrale Rete Siproimi spiegano che in assenza di un lavoro potrà comunque accedere a strumenti di sussidio previsti per i cittadini italiani come il reddito di cittadinanza. Una possibilità che per Danyar è l’ultima spiaggia: «Non voglio assistenza, sono giovane ancora». Abbiamo provato a contattare i responsabili della cooperativa per sapere quante opportunità di tirocinio retribuito siano state offerte a Danyar e se la ricerca di un alloggio sia avvenuta anche attraverso attività informative ed interventi mirati come previsto da linee guida del Ministero dell’Interno. Al centro però hanno risposto di non essere autorizzati a fornire informazioni quindi ad oggi l’unica voce che siamo in grado di raccontare è quella di Danyar e il suo appello. «Sono un rifugiato ma il sistema non mi sta aiutando a cercare un inserimento nella società. Quello che desidero è solo un lavoro. Sono una persona onesta e voglio vivere liberamente».