LA DOPPIA FACCIA SULLA TUNISIA DEI MIGRANTI

(Panorama 8 febbraio 2023)
Migranti dell’Africa occidentale e centrale ma soprattutto tunisini.
Giovani disoccupati ma anche famiglie intere. Si imbarcano da
Monastir, Zarzis, Sfax e in poche ore arrivano a Lampedusa o in
Sicilia. Imbarcazioni sempre più sovraffollate e per quanto più solide
dei gommoni libici, non poco rischiose come documentano gli oltre
575 morti nel 2022 registrati dal Forum Tunisino per i Diritti
Economici e Sociali (FTDES). Un flusso che nell’ultimo anno ha
toccato quota 30.261 arrivi in Italia di cui più della metà tunisini,
spinti da una profondissima crisi economica.
L’inflazione che galoppa verso l’11%, la scarsità dei beni di prima
necessità con i supermercati a corto di pasta, riso, latte e zucchero.
E poi tassi di disoccupazione sempre più alti con il 37% dei giovani
senza lavoro secondo il Tunisian National Statistics Institute.
Una fragilità strutturale amplificata dalla pandemia, dalla crisi in
Ucraina e resa ancora più pesante da una presidenza, quella di
Kais Saied, in grave difficoltà politica. Dopo l’elezione nel 2019 tra
gli auspici popolari, il presidente tunisino ha diviso il Paese con
un’amministrazione giudicata da molti analisti autoritaria e
accentratrice. Una progressiva concentrazione dei poteri che a
giudicare dall’affluenza flop delle ultime elezioni ferma all’11%, non
ha convinto la popolazione. Grosse difficoltà si riscontrano anche
sul piano diplomatico. Da un lato il ritorno a mani vuote dalla
tournée invernale nei paesi del golfo dove Saied si era recato nella
speranza di ottenere un supporto economico e dall’altro la trattativa
tutta in salita con il Fondo Monetario Internazionale che in cambio
di 2 miliardi di dollari chiede riforme strutturali specie nel sistema di
sovvenzionamento delle imprese pubbliche finora poco permeabili
allo sviluppo della concorrenza. Prospettive che spaccano
ulteriormente l’opinione pubblica. “Sebbene questi prestiti possa
migliorare la capacità dello Stato di importare prodotti alimentari –
mette in guardia Aymen Bessaleh, analista del Tahrir Institute for
Middle East Policy, su Foreign Policy – potrebbe ridurne l’accesso
da parte dei cittadini, il che non risolve il problema della sicurezza
alimentare”. Come se non bastasse, l’ultimo report dell’agenzia di
rating americana Moody’s ha declassato il debito sovrano tunisino
da Caa1 a Caa2 inserendo la nazione africana tra i paesi ad un
passo dalla bancarotta.
Una situazione che preoccupa l’Italia dato il ruolo centrale della
Tunisia come partner commerciale (qui operano quasi 1000 società
a capitale italiano), luogo di passaggio del gas algerino e
soprattutto per il dossier migranti che a fronte di un inasprirsi della
crisi potrebbe vedere un ritorno ai livelli del 2016 con 180 mila arrivi
via mare.
Non a caso, in parallelo con l’aumento dei flussi, Italia e Unione
Europea hanno aumentato gli investimenti a favore del
contenimento delle partenza da parte della Tunisia. Oltre al
rifornimento di 6 motovedette da parte delle Nazioni Unite (Unops)
e Ministero degli Affari Esteri italiano, anche il Programma di
gestione delle frontiere per la regione del Maghreb ha messo sul
tavolo 30 milioni di euro per il rafforzamento della Guardia Costiera
Tunisina. Sulla stessa lunghezza d’onda anche la Commissione
Europea che nel Piano d’azione per il Mediterraneo centrale dello
scorso novembre prevede finanziamenti pari a 580 milioni di euro
per rafforzare i controlli alle frontiere di Libia, Egitto e Tunisia che
con il 73,5% delle espulsioni dirette a Tunisi, ad oggi è il principale
partner italiano in materia di rimpatri.
Un approccio di contenimento dei flussi che non piace però a ONG
e associazioni umanitarie che chiedono di depennare la Tunisia
dalla lista dei paesi sicuri. Lista in cui è stata invece invece inserita
da decreto migrazione e sicurezza del 2019 rinnovato lo scorso
marzo e che facilita i rimpatri. Secondo l’ultimo report della ONG
Civil MRCC, l’UE vuole estendere il campo di applicazione del
concetto di paese terzo sicuro per consentire a chiunque transiti per
la Tunisia di venirvi espulso. Allo studio vi sarebbe inoltre l’idea di
trasformare la Tunisia in una piattaforma di sbarco trasferendo qui
le richieste di asilo dei migranti che raggiungono le coste europee.
Uno scenario evitabile se si mette in discussione l’impianto
democratico e la sicurezza della Tunisia, operazione utile anche a
permettere all’attuale flusso di migranti economici di fare domanda
di asilo come possibili profughi. Non sembra casuale il boom,
proprio negli ultimi mesi, di report di violazioni dei diritti umani e
civili da parte del governo di Saied.
Se da un lato ASGI, Avvocati Senza Frontiere e FTDES denunciano
le condizioni di detenzione e il trattamento discriminatorio subito dai
tunisini intercettati in mare o rimpatriati, Human Rights Watch punta
su gravi violazioni dei diritti umani compresa libertà di parola,
violenza contro le donne, minoranze LGBTQ e restrizioni arbitrarie
dovute allo stato di emergenza del paese che però perdura dal
2015, da prima dell’arrivo di Saied.
Scenari che sicuramente non si possono del tutto escludere ma che
appaiono mitigati dalle classifiche del Fund for Peace, associazione
internazionale specializzata in diritti umani, secondo la quale, la
Tunisia sarebbe ben più sicura di altri paesi su cui non c’è alcun
focus umanitario come Marocco, Algeria o Senegal.
Oltretutto, mentre associazioni umanitarie come EuroMedRights
puntano il dito contro l’Europa colpevole di finanziare le frontiere
anziché aiutare il processo di democratizzazione della Tunisia,
nessuna riga viene dedicata a quello che appare come un vero e
proprio cortocircuito.
Se da un lato la crisi economica non aiuta quella politica, proprio il
“mancato processo di democratizzazione” sarebbe il motivo per cui
Washington oltre a tagliare aiuti militari e civili alla Tunisia, starebbe
rallentando il prestito del Fondo Monetario Internazionale. In bilico
vi sarebbe anche un finanziamento da 500 milioni da parte della
Millennium Challenge Corporation. “E’ il prezzo che Saied deve
pagare”, ha commentato Kenneth Katzman del think tank del
Soufan Center ad Al Jazeera per “aver distrutto l’immagine della
Tunisia come l’unica storia di successo della Primavera Araba”,
quasi dimenticando che più che il presidente tunisino, sarà la
popolazione civile la prima a rimetterci e, se l’economia non tira il
fiato, a dover fare le valigie.